
Sono nata fallata. Non avevo neanche dieci anni quando mio padre mi dettava le poesie di Ungaretti e mia madre mi portava nei polverosi cinema d’essai del centro storico di Roma a vedere i film di Kurosawa in versione originale con sottotitoli in danese.
Eppure, io ho sempre avuto un incomprensibile e autodidatta gusto per il trash. Più precisamente trash italiano. A volte riuscivo a guardare qualche frammento di Scommettiamo Che? o di Re Per Una Notte prima che mia madre mi facesse cambiare canale dopo aver sbuffato in perfetto stile parigino.
Con gli anni però sono riuscita a guadagnarmi un evento trash, o presunto tale all’anno: la finale di Sanremo.
Ho raggiunto questo obbiettivo usando le tattiche sindacaliste di cui sentivo parlare alle manifestazioni di Piazza del Popolo a cui mi portava mio padre. Sì, seguivamo i comizi per intero, comodamente seduti al Bar Rosati (da Canova c’erano “i fascisti”), lui con il suoi whisky, io con la mia Coca-Cola.
Sì, Sanremo lo seguo dal 1995, mi ricordo Laura Pausini che piangeva Marco, Chiambretti che toccava il culo alle vallette, i Neri Per Caso, i Jalisse e altre meravigliose creature sprofondate nell’oblio. Con l’avvento dei social mi diverto a commentare le serata in diretta e ricevo sempre quei tre like e quei quattro commenti da i miei compagni di trashitudine che non si vergognano a dire che guardano il festival. Questi ultimi anni ho anche coinvolto i miei figli e mi sento meno sola.
Mi immagino anche tutti i bacchettoni che scorrono scocciati i miei post in una rara pausa tra una rilettura di Du côté de chez Swann e un sonetto di Chopin. Perchè il manuale del bravo intellettuale vieta di guardare tutto ciò che non fa più del 10% di share.
Mi consolo dicendomi che se Umberto Eco guardava tutte le sere l’Eredità e parlarne nella Bustina di Minerva, io posso guardare Sanremo e, soprattutto, commentarlo con sarcasmo, affetto e nostalgia adolescenziale senza troppi sensi di colpa,