
Camilla Ravera è stata la prima a senatrice a vita della storia della Repubblica, nominata da Sandro Pertini, dopo di lei solo Rita Levi Montalcini, Elena Cattaneo e Liliana Segre.
Camilla Ravera è stata anche la prima donna al vertice di un partito: lo fu del Partito Comunista d’Italia, dal 1926 al 1928 e poi nel 1930. Alla politica dedicò tutta la vita e, nell’impegno volto alla conquista dei diritti del lavoro, nella battaglia a sostegno dell’emancipazione femminile, affrontò, coraggiosa e indomita, la lunga persecuzione fascista: sottoposta in condizioni di salute precarie 5 anni di carcere e 8 anni di confino.
Come vi ho già raccontato nel mio post su Giorgio Amendola e Germaine Lecocq, in questo momento sto effettuando delle ricerche sugli oppositori al regime fascista e uno dei libri che mi ha più appassionato è stato proprio Diario dei 30 anni di Camilla Ravera, dal quale vi racconto alcuni passaggi che mi hanno particolarmente colpito.

Nasce in Piemonte nel 1889 in una famiglia benestante e trascorre l’infanzia e la prima giovinezza a Torino. Racconta che il desiderio di impegnarsi politicamente nasce per lei nel 1913, osservando una manifestazione di operai dalla sua finestra. Si iscrive al Partito Socialista e frequenta la Camera del Lavoro di Torino dove incontrerà uno dei suoi maestri di vita Antonio Gramsci. In tutto il libro parla di lui con la più grande ammirazione e il più profondo affetto.
In quegli anni si forma una prima assemblea di donne socialiste di cui Camilla Ravera è protagonista, è la prima volta che le donne esprimono pubblicamente la loro coscienza politica nel nostro Paese. Dopo la nascita del Partito Comunista con la scissione di Livorno del 1921, il neonato partito convoca la prima assemblea delle donne comuniste a Roma nel 1922 e la Ravera chiede uno spazio sul noto giornale gramsciano L’Ordine Nuovo dedicato ai temi dell’emancipazione femminile.
In questa tribuna il primo articolo di Camilla Ravera tratta del sotto salariato femminile, è triste constatare che il tema sia ancora attuale dopo ben cento anni! In un articolo successivo, intitolato “La madri operaie” scrive:
“In primo luogo, si tratta di riconoscere alla donna, come all’uomo, il diritto al lavoro produttivo retribuito, e il fatto che la donna madre non deve perdere il diritto all’indipendenza economica. Spetta alla società di conciliare le due esigenze, del resto non inconciliabili, poiché l’allattamento, l’allevamento del bambino, oltre ad essere il soddisfacimento del naturale istinto materno, è pure opera produttiva, e utilissima, per la famiglia umana.
Non è un’iniquità sociale questa che sull’operaia sposa e madre gravi un così enorme peso di estenuazione? Ma creare, allattare, allevare i figli è opera difficile, delicata, importantissima: da sola riempie la giornata di una donna, assorbe le sue energie; ed è opera produttiva per la collettività. Bisogna che sia riconosciuta come tale dalla società, l’opera della madre.”
Con queste parole chiare Ravera mette in luce un concetto importantissimo, che a mio avviso la società italiana non ha ancora fatto proprio: mettere al mondo un figlio non è solo una questione privata, la soddisfazione personale della coppia, si tratta di qualcosa che beneficia alla società tutta e come tale deve essere riconosciuta, aiutata e incentivata.
Ma Camilla Ravera parla anche di aborto in termini sorprendentemente moderni per l’epoca. Ricordiamolo, siamo nel 1920, un secolo fa!
“In una breve nota riferita a una questione un corso in Francia su misure legislative riguardanti il tema dell’aborto, accennavo anche alle condizioni che generano il controllo delle nascite: “Come obbligare – scrivevo – un’operaia che compie il triplice lavoro di operaia, donna di casa e madre, a non guadarsi dalla maternità?”
Possiamo immaginare come queste dichiarazioni, ancora oggi controverse nel paese in cui l’obiezione di coscienza intralcia gravemente l’applicazione di una legge dello Sato, siano state controverse e scandalose negli anni ’20 del Novecento!
Durante tutta la sua militanza Camilla Ravera, unica dirigente politica donna di primo piano, poiché membro del Comitato Centrale del Partito Comunista, si concentra sulla tutela delle donne lavoratrici doppiamente sfruttate. In particolare, si interessa alle raccoglitrici di riso, le mondine, per le quali organizza uno sciopero importantissimo nel Biennio Rosso (1919-1920):
“Le risaiole, ad esempio, che avevo visto l’intiera giornata con il capo nel sole ardente e le gambe nell’acqua melmosa, indifese dai morsi delle sanguisughe; malamente nutrite; gettate la notte sulla paglia comune del giaciglio. E, dopo quaranta giorni di fatiche e tormenti, stipate nei carri bestiami, per il ritorno a casa: con pochi soldi, la malaria nel sangue e nel fondo dell’anima una rivolta che sgorgava nei loro canti acuti e amari. E le povere donne asservite nelle altrui famiglie per sbrigarvi il lavoro domestico, senza riposo, senza difesa, sfruttate e umiliate all’estremo.”
Nel 1921 la Ravera diventa direttrice del quindicinale Compagna dove continua a denunciare le terribili condizioni in cui versa la condizione femminile in Italia.
Nel 1922 è una delle pochissime donne delegate al IV Congresso del Comintern a Mosca, dove incontra personalmente Lenin insieme a Bordiga. Al suo ritorno in Italia la marcia su Roma è compiuta e Mussolini si trova al potere.
Con l’avvento del fascismo e l’inasprimento della dittatura, è una delle principali organizzatrici dell’azione antifascista e riesce a rimanere nella clandestinità (prima in Italia poi in Svizzera e in Francia) per ben otto anni. Nel 1930 viene arrestata, denunciata da un compagno doppiogiochista, sul lago Maggiore e tradotta nel carcere di Varese:
Commovente il racconto di come la sua guardia carceraria l’abbia aiutata:
“Un mattino la guardiana entrò nella mia cella in un’ora insolita […] Aveva un’aria misteriosa e ansiosa. Cavò fuori dalla tasca della sua sottanona un uovo e una bottiglietta. E rapidamente mi spiegò: teneva in casa due galline che le procuravano qualche uovo per il marito malato. Ne aveva preso uno per me, perché mi aiutasse a resistere, a conservare le forze. Dovevo berlo subito, prima che qualcuno potesse arrivare; nessuno doveva sapere di quel suo piccolo aiuto: con le minacce che le avevano fatto! Aveva origliato molte volte alla porta della stanza dove avvenivano i miei interrogatori. Per questo voleva aiutarmi. E insistette con calore affettuoso perché sorbissi l’uovo. Poi dalla bottiglietta versò nel guscio un po’ di marsala: “Beva, desse, questo sostiene”. E scappò via per tornare al suo servizio, muta e rigida come sempre.
Da quel giorno, e fino a quando fui trasferita a Roma, tornò ogni mattia con l’uovo e il marsala. Nella sua rapida visita mi diceva molte cose su di sé e di noi. Era guardiana del carcere soltanto da un anno. E lei aveva accettato quel lavoro per necessità: aveva due bambini. Sentiva vergona di trovarsi a servire quella gente”.
Il racconto di Camilla Ravera continua e ci narra della terribile esperienza nelle carceri italiane, di quando viene mandata al confino in un paesino della Lucania, dove il podestà vorrebbe che lei insegnasse a leggere e scrivere ai giovani analfabeti prossima alla leva, progetto arrestato dalla polizia per timore che la donna possa divulgare idee sovversive ai suoi alunni. La narrazione si conclude nel 1943, quando la caduta di Mussolini le consente di lasciare il confino a Ponza, dove era stata trasferita come ultima tappa insieme a Terracini e Pertini. Consiglio a tutti lettura di qui questa biografia incredibile, di una donna illuminante, forte e determinata che, anche nei momenti più bui, ci racconta di piccoli episodi ricchi di umanità e empatia.
