
Ci sono notizie di cronaca che vorrei non aver mai letto. E quest’anno mi è successo due volte, quest’estate e pochi giorni fa.
Ho letto il titolo della morte della piccola Diana, lasciata sola in casa per settimane e ho letto del neonato morto in ospedale per soffocamento mentre veniva allattato dalla mamma addormentata. Ho letto solo questi titoli e la reazione è stata la stessa: chiudere il prima possibile l’app del giornale, non leggere altri dettagli, ne l’occhiello, ne l’inizio del pezzo. Staccare il cervello e maledirsi perché, ora, quella notizia non la posso disapprendere, mi rimarrà addosso tutto il giorno in modo più o meno latente per poi ritornare violenta e ossessiva quando proverò ad addormentarmi stasera.
No, non voglio sapere più niente di queste storie. Eppure, non riesco a pensare ad altro nei giorni seguenti. Leggo post sui social, scrivo e cancello commenti, non sono d’accordo con nessuna e ce l’ho con tutti quelli che ne parlano. Nessuno capisce, devo aspettare che la notizia si sgonfi, far passare i giorni, e non scriverne, non commentare, fare come se queste storie non fossero il pensiero constante al quale ritorno inesorabilmente quando la mia mente è libera di vagare.
Ma perchè? In fondo di notizie terribili sui bambini, e forse peggiori di queste, ne arrivano in continuazione. Perché non provo la stessa patologica reazione quando leggo dei bambini morti annegati sui barconi dei migranti o di quelli dilaniati dalle bombe russe?
Molti dicono che queste donne sono state lasciate sole, chi da un tessuto sociale indifferente, chi da un sistema sanitario nemico delle donne e al collasso. Soprattutto la mamma del neonato morto in ospedale. Hanno ragione, e lo so. Ma io non riesco a perdonarle, penso che in realtà siano colpevoli. Il mio cervello si avvita intorno a questi pensieri, un sasso mi stringe lo stomaco, non dormo, sto male.
Perché quella sono io.
Io non so se sono stata lasciata sola dopo il parto. Non credo. O forse si, nessuno ti spiega cosa devi farci con quel bambino. Esistono i corsi preparto, ma il post parto non interessa a nessuno. Arrangiati. Ho partorito tre volte, le prime due in un ospedale dove non esisteva il nido ed io ero ben contenta di poter stare sempre col bambino. La terza il nido c’era e l’ho subito come una violenza. Mi facevano vedere la bambina solo a determinati orari e quando entravo per allattarla, vedevo tutti i neonati in fila nelle cullette lasciati piangere sconsolati. Le infermiere erano brusche, li cambiavano girandoli come si farebbe con l’impasto di una pizza.
Ma il punto non è neanche questo. Il punto è che dopo, tornati a casa, per mesi, vieni svegliata continuamente di notte, sei stremata dalle passeggiate avanti e indietro per il corridoio per calmare una colichetta. Il tempo comincia a dilatarsi e deformarsi perché sei in questo tunnel di pannolini, medicazione di cordone ombelicale e mutande di rete. Delle mutande di rete e degli assorbenti post parto non ti ha mai parlato nessuno. Non sai che sanguinerai come una bestia per un mese. E l’unico momento in cui sai per certo che il bambino starà calmo è quando lo allatti e lo lasci attaccato a te, te lo metti nel letto.
E questo comporta tutto un rituale dell’angoscia: monti una spondina, ti assicuri che i cuscini e le coperte siano lontane dal suo viso, ti metti sul fianco con il braccio ben piegato sotto alla testa, fai allontanare tuo marito. Ma ti risvegli sempre di soprassalto, colpevole di non essere stata presente e vigile, al pensiero che durante il sonno tu abbia potuto soffocare tuo figlio. Controlli che respiri. Per mesi.
Il suo respiro diventa la tua ossessione.
Ma non solo questo, quando gli fai il bagnetto, ti sei accorta di esserti distratta dieci secondi col cellulare. E tremi. Avresti potuto ucciderlo. Basta un attimo. Un secondo di distrazione.
E quando esci a fare la spesa. Sei in discesa, ti fermi per prendere qualcosa in borsa, hai messo il freno alle ruote della carrozzina? In macchina sei sicura di aver chiuso bene le cinture del seggiolino? E sul fasciatoio, lo stai tenendo abbastanza fermamente per non farlo cadere? E sul seggiolino, e nella sdraietta. Te la porti dietro quando vai in bagno.
Quante volte ho sbagliato? Quante volte mi sono distratta? Quante volte ho rischiato di soffocarlo nel sonno? Quella notizia parlava di me, delle mie ansie, di quello che ho vissuto con ognuno dei miei figli in silenzio e che non è successo solo per fortuna o per caso.
Io sono diventata madre per una scelta che sentivo fortissima, e, a rischio di sembrare melensa e banale, affermo che la maternità è stata per me meravigliosa, trasformativa, un’esperienza mistica persino. Tuttavia, l’angoscia di essere responsabile di un esserino che per anni è in balia di ogni tuo gesto, di ogni tua decisione o distrazione è veramente un fardello pesantissimo, che riesco a condividere solo ora, a 13 anni dalla nascita del mio primo figlio.
Oui, ❤️
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