(e gli ho pure chiesto di visitarmi)
in Italia, negli ospedali pubblici, i preti possono girare per i reparti a parlare con i pazienti. E indossano il camice come fossero dei sanitari.

La storia che sto per raccontare accade solo a chi partorisce in Italia.
La gravidanza di mia figlia Alice non è stata come le altre. Sicuramente non come quelle dei miei due primogeniti, che ricordo come un’esperienza dolce e senza preoccupazioni. Avevo meno di 30 anni, tanta energia e soprattutto, essendo la prima delle mie amiche ad avere figli, non avevo nessun tipo di ansia sulle cose brutte che possono succedere alle donne incinte e ai loro piccolissimi figli. Tutto sarebbe andato bene e infatti è andato tutto bene.
La mia terza gravidanza, invece, è durata poco più di tre mesi. Ho deciso di interromperla dopo che “al feto” (ma per me è il mio terzo figlio Giulio) è stata diagnosticata un’anomalia incompatibile con la vita. Un’esperienza orribile, dalla quale non mi sono mai completamente ripresa, sia per aver dovuto affrontare quella scelta che per essermi scontrata con l’obiezione di coscienza e per aver dovuto affrontare le condizioni terribili in cui le donne abortiscono in Italia. Non mi dilungo perché ho raccontato tutto nel mio primo romanzo Il Consolo edito da Fandango Libri nel 2021.
L’attesa della mia quarta e ultima figlia Alice è stata complicata. Sono rimasta incinta dopo due anni dall’aborto terapeutico e forse mi sentivo un po’ in colpa per riprovarci di nuovo, sfidare nuovamente la statistica delle anomalie cromosomiche. Ero molto agitata e ho vissuto ogni test prenatale con un’enorme ansia. A questo si è aggiunta una crisi con mio marito e una mia salute che non era più così di ferro.
L’ultimo trimestre ho cominciato a soffrire di ipertensione, di iperglicemia e piano piano tutte le analisi del sangue hanno iniziato a sballarsi. Ho passato Natale ricoverata per tenere sotto controllo la pressione per poi ritornare a casa un altro paio di settimane prima del parto.
Per monitorare la mia salute mi fecero fare un esame delle urine che io non avevo mai sentito prima e nemmeno immaginato. Quando in farmacia dissi il nome dell’esame e mi diedero un contenitore per le urine che sembrava una di quelle latte d’olio da 5 litri, cominciai ad insospettirmi.
Praticamente devi portare al laboratorio tutte le urine delle ultime 24 ore (passate a fare pipì nella suddetta tanica). C’è qualcosa di estremamente umiliante nell’andare al laboratorio con tutta la tua piscia appresso.
Alla 39° settimana, il mio ginecologo mi consiglia di non aspettare oltre e di farmi ricoverare per indurre il parto. Grande ospedale pubblico universitario romano, il livello medico è eccellente ma come al solito il tatto verso le pazienti molto da rivedere. Il parto è stato lungo e doloroso, tutta una notte ad aspettare che l’induzione facesse effetto, mi è venuta la febbre, ero terrorizzata che qualcosa andasse storto e hanno fatto entrare mio marito solo pochi istanti prima che la bambina nascesse.
Era andato tutto bene, mia figlia era una meraviglia. Dopo due giorni, mi annunciarono le dimissioni. Ma mentre mi cambiavo e chiudevo le borse, una specializzanda che si rivolgeva a me chiamandomi per cognome e dandomi del tu mi disse che non potevo tornare a casa perché le ultime analisi non andavano affatto bene e se ne andò dicendomi che poi sarebbe passato il medico a parlare con me.
Io sono una persona che si angoscia molto facilmente, ma in quello stato mentale e con la stanchezza che avevo addosso ho scambiato le sue parole per una condanna a morte. Il medico non arrivava, io provavo ad interpellare ostetriche e infermiere, ogni camice che passava frettoloso, ma nessuno sapeva niente e nessuno aveva tempo.
La sera arrivò un’infermiera con due damigiane di plastica. Già sapevo che mi avrebbe chiesto di fare pipì lì dentro per le prossime 24 ore, e così è stato. Se farlo la prima volta era stato umiliante, a questo giro lo era ancora di più. Condividevo la camera con un’altra puerpera e non c’era modo di nascondere quel contenitore; quindi, io sapevo che ogni volta che lei o suo marito e sua madre che la venivano a trovare andavano in bagno, avrebbero visto tutta la mia pipì accumulata nel grande contenitore.
Dopo che partorisci sanguini per settimane, non si tratta di una normale mestruazione, ma perdi tutto il rivestimento dell’utero che era servito ad accogliere il tuo bambino, così ti ritrovi pezzi rossi e viscidi misti a coaguli di sangue. Il mio bidone di pipi era quindi rosa e dentro ci nuotavano dei pezzi rossi.
Non si parla di queste, a me non lo aveva detto nessuno. Non sapevo niente di ciò che succede dopo il parto, per questo ci tengo a raccontarlo anche se probabilmente il galateo non lo prevede.
La mattina seguente il medico non era ancora venuto. Io pensavo già a girare un video in cui dicevo a mia figlia che la amavo e che doveva vivere felice, immaginavo mio marito che allevava da solo i nostri tre figli e speravo che non si sarebbe scannato troppo con mia madre. Ottimismo e vitalità insomma.
Tutto cambiò quando vidi entrare un signore attempato in camere. Indossava un camice candido. Era sicuramente il primario, uno importante, si vedeva dall’espressione fiera e calma. Mi salutò in modo molto educato. Un medico come quelli di una volta. Mi sorrise, non sembrava uno che mi stava per annunciare che mi restavano poche ore di vita.
Mi disse che avevo un bellissimo nome, importante, quello di una martire cristiana anche dipinta dal Caravaggio. Annuii e non gli dissi che a me Orsola ha sempre fatto cagare. Mi chiese dove abitassi e dove andassi in parrocchia, a San Bellarmino per caso? Domanda sulla quale tergiversai. Ok, la stava prendendo un po’ alla larga, ma stava solo facendo quattro chiacchiere per mettermi a mio agio.
Poi mi chiese come mi sentivo.
E li cominciai un monologo lungo e affannato, sapevo che mi avevano trattenuta per via delle analisi, mi avevano fatto rifare le urine delle 24 ore però non avevano più detto niente. E poi c’è del sangue, non è che l’esame verrà falsato?
Alla parola sangue si alterò, mi sembrò quasi di intravedere un’espressione di disgusto.
“Sangue, ma è normale?” disse lui esitante
Ma si, mi era successo anche nei due parti precedenti, rispondo io. Poi mi venne il dubbio, forse questa volta c’era più sangue? Troppo sangue? Stavo avendo un’emorragia? E allora gli dissi:
“Ma lei mi potrebbe visitare?”
E nell’esatto momento in cui pronunciai queste parole, intravedo, sotto al camicie il colletto clericale, e sopra al camicie un cartellino con il suo nome preceduto da DON.
Era domenica, il medico non era ancora venuto a parlarmi. Ma in Italia, negli ospedali pubblici, i preti possono girare per i reparti a parlare con i pazienti. E indossano il camicie come fossero dei sanitari.
Ci siamo guardati negli occhi per pochi secondi che mi parvero eterni. Sul suo volto ho visto il terrore. Il mio probabilmente si è colorato alternando rosso, viola, verde. Poi è scappato.
Poco dopo è arrivato il medico, quello vero, meno gentile ma portatore di buone notizie. Era stato solo uno scrupolo, le ultime analisi erano leggermente alterate e per sicurezza mi avevano trattenuta una notte in più. Se le nuove analisi fossero state buone (come poi è stato) sarei state dimessa.
Una trentina i preti negli ospedali – Corriere.it
Stipendi per i preti in corsia, sui giornali l’inchiesta dell’Uaar – A ragion veduta
il Resto del Carlino | Preti in corsia? Ci costano 380mila euro – Cronaca – ilrestodelcarlino.it